V. Tra testo e ipertesto, la novella decameroniana (con la sua carica di notizia o informazione e novità, o innovazione, da una parte e di finzione e simulazione narrativa dall'altra) forma genetica di una più generale economia delle forme simboliche nella società mercantile al suo nascere, sollecita dunque oggi più che mai, nell'età di un'economia mercantile e discorsiva ormai dispiegata (se non addirittura "totalitaria"), il gioco dell'interpretazione. Vale dunque la pena di ritornare al tema centrale del nostro intervento: il modello (o antimodello) decameroniano, alla luce del dibattito teorico e critico più recente. E ripartiamo dalla questione dell'enciclopedismo: è certamente lecito domandarsi, a questo proposito, che posto occupi il Decameron nel macro-processo descritto da Eco, se e quanto esso partecipi della dinamica sopra delineata.
Opera, come si è già ripetuto più volte, "modellizzante" quant'altre mai, nell'architettura del Decameron, nella codificazione della narratio brevis (novella) da esso operata, enciclopedismo medievale e apertura "moderna" si confrontano (e si scontrano) già, trovando un equilibrio che non pare affatto azzardato definire, alla luce dell'evoluzione successiva della novellistica, irripetibile. Se, infatti, come ha scritto Michelangelo Picone, il "Decameron sembra strutturarsi come l'inversione parodica dell'ordo enciclopedico [medievale], rinvenibile nelle raccolte di exempla o nei trattati di predicazione, che sono stati il suo antimodello", come lo stesso titolo (o nome proprio) dell'opera segnala (25), non va, in tale inversione parodica, sottovalutata (ed anzi va rivalutata in pieno) la strategia retorica ammiccante nel sottotitolo, la cognominazione "prencipe Galeotto". Perchè se il nome del Libro rimanda ad un ordo autoriale (pur se parodico), il cognome apre invece la via ad un ordo o ad un antimodello (anch'esso parodico?) che gravita decisamente dal lato del Lettore, o meglio delle Lettrici, "destinatarie" della finzione narrativa (26).
Soffermiamoci allora un po' più da vicino su questa duplice strada apertaci simultaneamente dal testo per il suo attraversamento, la sua interpretazione, il suo "uso" e "consumo" "performativi" e, nel nostro caso, la sua visualizzazione o "rappresentazione" enciclopedica e ipertestuale (27). Se, infatti, di "inversione parodica" si tratta, che non si tratti di una semplice inversione fa subito testo la pluricommentata novella d'esordio di Ser Cepparello/San Ciappelletto, falsario: in cui, tra "ribaltamento" parodico di modelli culturali tradizionali e attuazione "performativa" di pulsioni avvertite come radicalmente trasgressive (per dirla con Todorov, le pulsioni "demoniache" di uno "scambio falsato"), è di fatto l'ambiguità (o polisemia) del messaggio poi a prevalere (28). Il che rende vano, a nostro avviso, ogni tentativo di fare ad esempio del Decameron un testo semplicemente speculare (o "inverso") alla Commedia dantesca (lungo il vettore "orrido cominciamento"-"dilettevole" e "utile" e "salvifica" conclusione), per deciderne così, una volta per tutte, l'ordo, il codice, la somma (o summa) delle competenze necessarie ad una interpretazione (o lettura) corretta o autentica. Il che ha delle conseguenze determinanti sulla natura del modello comunicativo che il Decameron incarna o, meglio ancora, si presta a rappresentare.
Non a caso, Boccaccio rinuncia di fatto a collocare preliminarmente il suo "anti-eroe", (Cepparello, il peggior uomo che mai vivesse, artista della falsificazione e della inversione) in paradiso o all'inferno, lasciando al lettore l'improba decisione (o almeno un minimo dubbio). Ambiguità rinforzata, a ben guardare, dal "motto malizioso e equivoco" (Branca) con cui Dioneo licenzia alla brigata (e alle donne) l'ultima delle cento novelle (l'exemplum di santità di un Giobbe al femminile, Griselda) e riconfermata ulteriormente dal senso complessivo della Conclusione dell'Autore (e non a caso accomiatandosi il Libro ribadisce tanto il proprio nome che il proprio cognome, ripetendo così un'ultima volta la strategica, autoriflessiva presenza del "paratesto" -- una sorta di auto-modellizzazione testuale -- nella propria conchiusa struttura) (29). È, insomma, la stessa architettura complessa del Testo (l'intervento modellizzante della scrittura, dell'imprint o disegno autoriale) ad offrirci due (o molteplici, secondo l'angolo visuale del Lettore) vie, simultaneamente inerenti al suo statuto narrativo, come inscindibile unità di modello/anti-modello, ordo e transgressio (30).
Non è tanto al "privilegio di Dioneo (31)" o agli interventi di commento (diretti o indiretti) dell'Autore inframmezzati alla compagine narrativa che si fa qui implicito riferimento, quanto ad un'altra interessante questione sollevata da Eco in una delle sue passeggiate harvardiane, laddove introduce la categoria della "sgangherabilità" di un'opera: "L'immenso, millenario successo della Bibbia è dovuto alla sua sgangherabilità, visto che è opera di diversi autori. La Divina Commedia non è per nulla sgangherata, ma a causa della sua complessità ... risulta sgangherabile al punto tale che i suoi fanatici la usano persino come riserva di giochi enigmistici...Ma se Dante è sgangherabile, il Decameron non lo è, ogni novella va presa nella sua integrità" (32). Questa non-sgangherabilità del Decameron sembrerebbe un ostacolo alla sua visualizzazione in un ipertesto "decostruzionista" che faccia lecita la libido di un (qualsiasi) Lettore empirico. D'altra parte, è significativo il fatto che Eco la collochi al livello della novella (e non dell'Opera nel suo insieme, inclusa la cornice). In ogni caso, la struttura o l'architettura intrinseca dell'opera e il modello comunicativo (di comunicazione letteraria) che essa ispira sembrano, , condizionare qualsiasi tentativo di modellizzazione che noi, con qualsiasi mezzo, intendiamo fornirne.