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Queste due ultime proposizioni riguardano l'argomento -come si sa, molto discusso nel Medioevo e nel Rinascimento- dell'eventuale conflitto tra la cosidetta "prescientia" divina e il libero arbitrio umano: se la conoscenza di Dio non può che essere infallibile e Dio sa che un uomo porterà a compimento una data azione, il problema consiste nel decidere se il fatto che Dio la conosca non determina la medesima azione, data l'infallibilità divina, e se in questo modo non si cancelli il carattere libero di quell'azione umana. Sant'Agostino aveva dimostrato l'errore che implicano i termini stessi in cui si pone la questione: il prefisso "prae" nella parola "praescientia" indica una categoria temporale assolutamente inadeguata alla dimensione divina che è quella dell'eternità. Nella dimensione divina quindi non esiste il tempo, non c'è successione come nel mondo umano: in essa si realizza, per appellarsi ad immagini conosciute dall'uomo, la simultaneità. Di conseguenza, non si può parlare, in termini di eternità, di "pre" né di "post". Sulle tracce agostiniane e persino su quelle di Pier Damiani, Tommaso d'Aquino scrive che lo sguardo umano, nel senso della conoscenza, è simile a quello di chi va per un sentiero e non vede quelli che camminano dietro di sé. Invece, se qualcuno guardasse dalla cima di una montagna tutto il sentiero, vedrebbe tutti i viandanti simultaneamente (cf., ad es., S.Th. I, q.14, a.13 c et ad 3). Così, Dio contempla "allo stesso tempo" tutte le azioni umane e le conosce non solo nelle loro cause, libere, ma anche nell'ordine della successione temporale in cui avvengono. Conosce dunque un atto umano contingente che, per noi, succederà nel futuro e la cui causa sta nella volontà dell'uomo. Lo conosce nella sua doppia condizione: in quanto libero e in quanto futuro. Nello stesso senso si possono leggere la tesi 6 e, soprattutto, la 7.
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